Con questa nuova e importante produzione, che vede riuniti per la prima volta insieme il Teatro Stabile dell’Umbria con quelli di Roma e Torino, Massimo Castri - indiscusso maestro della regia teatrale – torna a Euripide con Alcesti.
Lo spettacolo, attualmente in allestimento al Teatro Comunale di Gubbio, dove sono iniziate le prove il 22 dicembre scorso, farà una recita in anteprima a Gubbio martedì 7 febbraio, sarà poi al Teatro Morlacchi di Perugia da martedì 14 a domenica 19 febbraio, al Teatro Argentina di Roma dal 21 febbraio al 12 marzo e al Teatro Carignano di Torino dal 14 marzo al 2 aprile.
Gli interpreti dello spettacolo sono, Paolo Calabresi, Milutin Dapcevic, Ilaria Genatiempo, Sergio Romano, Renato Scarpa, Alessia Vicardi e Roberto Baldassari, Giovanni Carta, Angelo Di Genio, Michele Di Giacomo, Daniele Griggio, Andrea Ruggieri, Emilio Vacca, le scene e costumi di Maurizio Balò, le musiche di Arturo Annecchino, le luci di Gigi Saccomandi, il suono di Franco Visioli.
Il testo ha più centri tematici, uno di essi è sicuramente la morte, anche se probabilmente non se ne parla in termini approfonditi; il vero senso è la paura della morte e le sue conseguenze sul comportamento umano. Poi ci sono altri temi, l’amore e i suoi legami, e il rapporto uomo donna, un tema trasversale forte, anche se a prima vista non sembra.
Probabilmente il centro più importante del testo è l’operazione culturale e drammaturgica operata da Euripide, in linea con il suo sperimentalismo continuo, che in questo caso è particolarmente radicale e condotto con strumenti diversi dal solito.
Alcesti rappresenta la donna-moglie che muore per amore del marito, salvandogli la vita con il suo sacrificio: si tratta di un mito, sarebbe meglio dire una fiaba consolatoria, che proviene da un antichissimo motivo folclorico, diffuso in un’area molto vasta, dall’Europa settentrionale all’India. Euripide, senza fare né operazioni di parodia né di scardinamento, parte da questa fiaba e la trasforma: la trascrive trasportandola in ambito umano, usa una metodologia quasi novecentesca, simile, ma direi di livello superiore, a quella che hanno operato alcuni autori del ‘900 nei confronti di alcuni momenti del mito greco. Con un’operazione molto elementare, una tecnica quasi pirandelliana da certi punti di vista, mette i personaggi sotto una specie di microscopio, di lente di ingrandimento, trasformandoli da figurette senza psicologia, senza corpo e senza tempo, bidimensionali, in personaggi reali con un corpo, un carattere, dei rapporti, e soprattutto introduce il tempo della vita normale. L’effetto di questa operazione di laboratorio, raffinata e astuta al tempo stesso, è che la fiaba esplode e si rovescia nel suo contrario, da consolatoria diventa nera e inquietante. Se si introducono personaggi veri e tempo reale in un tessuto mitico fiabesco, tutto cambia: bisogna riempire lo spazio di tempo che passa fra la decisione di morire e l’arrivo della morte.
Cosa succede tra due persone che convivono, in attesa che una delle due muoia per far vivere l’altro? La fiaba si rompe e viene a galla il tessuto di paure, vigliaccherie, fragilità umane, un aspetto completamente invisibile nella fiaba e che fa emergere con chiarezza il senso sarcastico della trappola psicologica tesa dal dio all’uomo: la possibilità di salvarsi dalla morte facendo morire qualcun altro. All’inizio sembra un regalo bellissimo, un bambino accetterebbe subito, ma un bambino è un essere totalmente, schiettamente e sanamente egoista, non c’è nessun problema se fa morire qualcun altro, per un uomo è diverso.
Il testo procede in questo modo, una volta che vengono alterati gli elementi della fiaba facendoli diventare materie umane – corpi, tempo che scorre, psicologia, persone reali –, si mette in moto un meccanismo che come logica conseguenza porta a una battuta centrale, detta da Eracle. Questo personaggio, anche se è raffigurato come comico e grottesco, rappresenta quasi il saggio della situazione, proprio come quei buffoni che alla fine sono i più saggi di tutti. A un certo punto dice in maniera molto semplice che “I mortali devono avere pensieri mortali”, non devono pensare di poter diventare immortali, altrimenti si complicano terribilmente le cose, e alla fine anche Admeto se ne accorge.
Questo è un po’ il testo, che poi è molto più complesso, ricco di riferimenti, di spunti secondari che si accavallano continuamente predisponendo a una lettura non lineare, non razionalizzabile, una sorta di stimolo continuo fatto di indicazioni ambigue, un po’ segrete, un po’ misteriose, quasi aleatorie.
Intanto Alcesti non è una tragedia: non si è mai vista una tragedia con protagonista un vigliacco, è qualcos’altro, una piccola grande opera. Il lieto fine è una parte integrante della fiaba, se dicesse solo: trovando qualcuno che muoia al tuo posto si evita la morte, sarebbe crudele. Ci deve essere un lieto fine per concludere il percorso consolatorio: gli dei sono così buoni che apprezzando il gesto di chi si sacrifica lo fanno tornare in vita. In realtà la fiaba non ti permette di vincere la morte, ma di far morire qualcuno al posto tuo: la morte non la vince nessuno. Il testo è così: ricchissimo di piccole indicazioni perfide e umoristiche.
Fra l’altro la prima scena si apre con una indicazione molto precisa, che magari alla fine non si ricorda. Apollo, che sta scappando dalla casa di Admeto per non venire contagiato dall’arrivo della morte, a mo’ di prologo racconta l’antefatto: Zeus ha ucciso Asclepio, figlio di Apollo, perché era diventato un grande medico che riusciva addirittura a far resuscitare i morti, lui sì era un vero salvatore dalla morte. Viene folgorato perché Zeus non poteva permettere che venisse sovvertito l’ordine naturale. In risposta Apollo ha ucciso i ciclopi che fabbricavano le folgori di Zeus e proprio per pagare questo affronto è stato relegato a servire nella casa di un mortale, Admeto appunto. Anche il coro, che con un pizzico di umorismo Euripide immagina fatto di vecchi, rimpiange Asclepio: “Lei potrebbe ritornare dai cupi recessi, dalle porte dell'Ade, se ancora vedesse la luce il figlio di Febo, che faceva risorgere gli estinti prima di essere colpito dalla folgore rossa di Zeus. Ma ora quale speranza mi rimane per la vita di Alcesti?”
La prima immagine del testo è questa: la morte non si vince, è un dato naturale, ma Admeto ha avuto paura. Come dicevo si racconta questa paura, più che il rapporto con la morte; certamente la paura è una forma di morte, è la morte dell’anima, tant’è vero che Admeto ha accettato di far morire non una persona qualsiasi, ma la donna che ama di più al mondo. È anche vero che soltanto chi ti ama accetta di morire per te, e da qui la capacità di Euripide, con grande levità, di trasformare il testo in qualcosa di altro dalla fiaba da cui parte, senza approfondire le complessità psicologiche, ma accennandole e quasi proponendole come momenti di riflessione.
Tornando al lieto fine è necessario, altrimenti avrebbe insegnato ai bambini a far morire qualcun altro. Quindi Euripide mette in scena anche il lieto fine, se non fosse che inserisce un piccolo particolare di cui non ti accorgi neanche se non stai attento – il testo è pieno di piccole cose che sfuggono alla prima lettura, piccole perfidie messe dentro ma che smontano un pezzo dell’intreccio –. Eracle torna portando una donna velata e la fa accettare ad Admeto prima di dirgli che si tratta di Alcesti, per cui Admeto, di fatto, compie adulterio: nonostante tutte le sue belle chiacchiere e promesse sta portando nella sua casa un’altra donna… solo a questo punto Eracle gli rivela che è Alcesti. Di fatto è un lieto fine un po’ strambo, scritto in maniera umoristica; può quasi ricordare, stranamente, certi finali falsi e ironici degli ultimi drammi di Shakespeare, dei romance, dove tutto si mette a posto all’ultimo quasi in maniera miracolosa, come si continuerà poi nell’ottocento romantico: arriva una lettera, si riconosce qualcuno e tutti gli intrecci in sospeso si appianano.
Per informazioni e prenotazioni ci si può rivolgere telefonicamente, fino al giorno precedente lo spettacolo, presso il Botteghino Telefonico Regionale del Teatro Stabile dell’Umbria, tutti i giorni feriali, dal lunedì al sabato, dalle 16 alle 19, al n°075/57542222.
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